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Calcio, lo speciale Settore Giovanile del ct Vaniglia. Le nuove “riforme federali” per il rilancio dei nostri vivai

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Savona. A pochi mesi dal tracollo azzurro al Mondiale di Brasile 2014, la riorganizzazione del governo calcistico sta procedendo a grandi passi a partire dal tetto, inteso come vertici federali.

L’azzeramento di Natal, con il presidente Abete estremamente reattivo nel prendere la scia di Prandelli, ha reso infatti obbligatorio il Consiglio Federale ed ha condotto innanzitutto alla costituzione delle nuove gerarchie con alla testa del mondo del pallone nazionale il duo Tavecchio-Conte.

Ma una volta decisa la “nuova” Figc, dal tetto sarà subito il caso di scendere al suolo, anzi, sotto il suolo, nelle fondamenta. Perché volgendo lo sguardo sul campo, ai gravi, reali problemi strutturali emersi anche sull’isola un tempo felice dell’Italia calcistica, appare evidente che il principale handicap del nostro malandato foot-ball sia la degenerazione di un settore giovanile non più in grado di produrre un numero sufficiente di elementi da cui scremare, poi, l’eccellenza che faccia volare in alto le ambizioni azzurre.

La falda italiana di giovani calciatori, un tempo così generosa, si è prosciugata. I vivai, gestiti quasi esclusivamente dai nostri club, sono rimasti sotto logiche di profitto, gestioni economiche, priorità tecniche. Il materiale a disposizione dei tecnici delle nazionali giovanili si è drasticamente ridotto in termini numerici e consequenzialmente qualitativi, e nemmeno le deboli riforme provate negli anni recenti nei campionati junior hanno bloccato l’emorragia.

Tutto, in Italia, come detto,è in mano alle società, a dispetto di un settore giovanile e scolastico federale che ha ben poco peso politico dietro la facciata dell’organizzazione di tornei e della composizione di selezioni. I ragazzi crescono dentro le rispettive culle, dove poi giocano, o non giocano, o vengono abbandonati esattamente secondo le logiche del calcio dei grandi: contano innanzitutto i risultati, quindi l’insegnamento tecnico finisce in secondo piano rispetto a quello tattico-fisico; poi, sul gradino più alto (quello delle squadre Primavera) pesano l’eventuale investimento fatto sul giocatore, i rapporti col suo agente/procuratore quando presente e altri fattori tipicamente mercantili.

Per spiegare meglio la situazione attuale del nostro calcio basti dire che proprio il giorno prima dell’inizio del mondiale brasiliano, lo scudetto Primavera è stato vinto dal Chievo, una società virtuosa e ammirevole ma che tuttavia non vanta una grande tradizione nel terreno del vivaio: protagonista assoluto del successo scaligero è stato infatti un trequartista brasiliano, Victor Da Silva, prelevato nel 2008 dal natìo Mato Grosso ed al suo fianco, hanno gioito ragazzi chiamati Isnik Alimi, Halil Gjoshi e ancora Toskic, Mbaye, Haddou, Rasak.

Una rosa completamente in linea ad un trend che ha visto i 20 club della massima divisione schierare nelle rispettive giovanili 122 calciatori stranieri, pari a oltre il 23% del totale. La Juventus, la cui prima squadra mantiene una base fortemente nazionale, è arrivata ad allineare ben 13 non-italiani. Diventa fisiologica dunque la rarefazione di giovani indigeni che passino direttamente dal settore a una Serie A a sua volta già oberata di concorrenza straniera, spesso di mediocre livello.

Pare logico doversi chiedere: i nostri ragazzi non sanno più giocare a calcio? No, è che semplicemente – quando vengono localizzati – per sodalizi perennemente in lotta con i bilanci costano troppo. La società di origine che ne vuole tanti, maledetti e subito (un esempio: per il 16enne Verratti, il Pescara chiedeva 2 milioni), ed è forte l’investimento da realizzare anche fuori campo (scuola, alloggio, famiglia, spese generali) per un elemento ancora in età molto verde.

Ecco perché, allora, sempre più spesso i club-guida del nostro calcio vanno a pescare ragazzi già di 16-17 anni nel Sud del mondo: pressoché tutti gli stranieri dei settori giovanili sono africani (la netta maggioranza), dell’Europa dell’Est, sudamericani da Brasile, Ecuador, Colombia, Perù. Tutti, poi, più facilmente piazzabili all’estero in caso di cessione. Appare chiara, in un quadro simile, la difficoltà a un ravvedimento, a un’inversione di tendenza in nome del bene comune chiamato Nazionale: e allora l’unica via appare quella tedesca, a immagine e somiglianza di quanto fatto in Germania dopo i fallimenti del Mondiale 1998 e di Euro 2000 così simili a quelli azzurri di oggidì.

La Bundes-Federazione trovò idee, coraggio e soprattutto risorse per varare un progetto clamoroso, che ne ha fatto il primo e reale gestore dell’intero vivaio nazionale: sono gli osservatori e i tecnici federali a scegliere i ragazzini e ad avviarli al calcio in qualcosa come 366 centri di formazione; poi, i migliori vengono girati ai club, obbligati a seguire regole molto precise sulla loro crescita ed eventuale passaggio al professionismo. Come nella società e nella politica, di fronte al declino lassù hanno opposto le riforme integrali del sistema formativo: le stesse che, confidando che non rimangano solo utopiche stanno per essere finalmente varate anche in Italia.

Il neo-presidente della Figc, Carlo Tavecchio, sta lavorando alacremente e con profitto all’attuazione delle linee guida per il rilancio dei settori giovanili, una piccola rivoluzione del nostro calcio che, ovviamente, riguarderà da vicino soprattutto i club. Tre sono le proposte principali portate al cospetto del Consiglio Federale: le rose delle squadre non potranno avere più di 25 calciatori, otto di questi dovranno essere formati nei vivai nazionali e le procedure delle licenze per iscriversi al campionato saranno uniformate a quelle già stabilite dall’Uefa.

Queste le sue parole: “Per gli extracomunitari lavoreremo sui curricula, come in Inghilterra. Chiederemo l’intervento del Governo per uno strumento legislativo. Occorre avere un rapporto con la Lega di A. In Italia comunque c’è un bacino di 700mila giovani sotto i 18 anni. Per farli conoscere bisogna realizzare centri federali con diramazioni nelle province e poi nelle regioni. La Figc dovrà andare anche nelle scuole per creare, come gli inglesi, delle squadre negli istituti scolastici che possano partecipare a dei campionati”.

Il ct Conte, dal canto suo, non si sbilancia sulle possibili cure per il pallone malato, ma chiede di fare presto: “Mettere dei paletti per gli stranieri? Quella di Gigi Buffon può essere un’idea. In ogni caso bisogna iniziare a pensare qualcosa di serio e di fattibile, perché dopo le parole adesso servono anche i fatti. Mi auguro che si metta in moto un ingranaggio, qualunque cosa si deciderà di fare sarà un grande aiuto per me e per tutte le nazionali giovanili”.


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