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Calcio, lo speciale Settore Giovanile del ct Vaniglia. Il malessere dei vivai italiani: le azzeccate predizioni del “guru” Vatta

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Savona. Sei lustri da Geppetto del pallone, a intagliare campioni. Mestiere e amore. Tanto, davvero. Forse troppo. Sarà per questo che dopo 25 anni di settori giovanili nel Torino, nelle nazionali azzurre e nella Lazio, dal 30 giugno del 2001 un vetrerano come Sergio Vatta era rimasto virtualmente “disoccupato”. Il suo mondo stava diventando sordo a quelli come lui. Idee chiare e parole nette, sul calcio negato al ragazzino Carlo (un caso di cui aveva parlato tutta l’Italia calcistica e non) e a chissà quanti altri. Questa che riportiamo è la maniera con cui mister Vatta, maestro di tecnica e istruttore di vita, analizzava la situazione del calcio giovanile nazionale quasi 15 anni fa dimostrando con quanta lungimiranza preannunciava quanto poi si è andato negativamente ad avverarsi al tempo d’oggi.

Come commenta quanto accaduto a Carletto?

“Casi come quello del portiere della Roma si spiegano solamente così: i ragazzi abbandonano lo sport in generale, ed il calcio in particolare, perché hanno sempre fatto sogni non loro, ma indotti dagli adulti. Altrimenti avrebbero continuato a giocare e divertirsi senza traumi. Adesso invece, quando capiscono di non poter diventare campioni, non riescono ad accettare la realtà. Se non raggiungono quell’obiettivo si sentono falliti. E noi, con i nostri comportamenti, non stiamo che alimentando il sorgere di una fabbrica di sbandati”.

Per lei si tratta di un caso isolato o della punta dell’iceberg?

“Questo non è affatto un episodio isolato, i ragazzi hanno paura di provare e di non farcela. Si servono dello sport solo per diventare famosi, gli hanno insegnato questo, ma lo sport è altro. È gioco. Il fatto è che il mondo dei più piccoli è stato fagocitato da quello degli adulti, cominciano troppo presto a pensare al successo, ma questo non fa parte del loro mondo. Il primo errore è imporre ai bambini idee e traguardi futuri, mentre a loro dovrebbe spettare solo il presente. E poi allegare a questo l’imperativo di traguardi e responsabilità che non ci dovrebbero mai essere. È una vergogna usare i più giovani in questo modo”.

Qual è il peccato originale?

“Banale dirlo, ma alla base di tutto c’è sempre il vile denaro, lo sfruttamento dei ragazzi e il viverci sopra da parte di certe persone. Nei miei tre anni alla Lazio ho visto cose che non si possono raccontare, un’esperienza per certi versi traumatica. A cominciare dall’ansiosa corsa al successo che i genitori inculcano ai figli, mettendo perfino dei premi come una mancia per ogni gol fatto e diventando ostili e astiosi verso tecnici i istruttori. Proprio ora che si sono ristretti gli spazi e le prospettive: la metà dei giocatori di serie A sono stranieri, a quel livello ne arriva uno ogni 40mila. Ma nessuno spiega ai ragazzi che nella vita non si può sempre arrivare primi, e che la mia serie A potrebbe essere anche un campionato dilettantistico. Invece adesso devono essere bravi subito, o niente: vengono scartati. E si trasmette sempre più il concetto del gioco come lavoro, sbagliatissimo. Il calcio non ha ancora capito il rapporto giusto coi bambini, ne sta facendo degli adulti in miniatura. E siccome il bambino è il padre dell’adulto, quando toccherà a loro che genitori saranno, con un esempio del genere?”.

Quali rimedi propone?

“Quelli che hanno talento, i campioni, prima o poi arrivano sempre. Ma non si può inculcare a tutti gli altri una mentalità del tipo: ‘O gioco in serie A, o sfondo nei professionisti, o niente’. È bruttissimo. Il calcio invece è un gioco troppo bello per essere abbandonato così, chi non ha abbastanza doti può sempre far altro. A parte il fatto che si può arrivare lo stesso, usando intelligenza, grinta e sacrificio. Una volta in aereo mi si è avvicinato un giocatore al quale non avevo predetto un gran futuro. ‘Mister, ci sono arrivato anche io in serie A, visto?’. L’abbandono della pratica sportiva nasce dalla nausea e da un modo sbagliato di fare selezione nel nostro Paese: i grandi club pretendono di trovare ragazzi pronti subito, per questo le statistiche dicono che per annate vengono presi più di tutti i nati nel primo trimestre. Nell’immediato magari sono più svegli, ma ci sono fior di campioni scartati dai settori giovanili e scoperti solo dopo. Lo sport è imparare a superare se stessi, verificarti con gli avversari, non promettere facili carriere e soldi. Sì, confesso che ho paura per la piega che da questo di vista ha preso il mondo del calcio”.


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