Savona. Per la cronaca Favini (classe 1936) gestisce da oltre vent’anni il vivaio del club bergamasco: 3 miliardi di budget, 11 squadre, 101 dipendenti. L’abitudine a sfornare cose buone l’ ha presa dal mestiere di famiglia.
“I miei genitori avevano una panetteria a Meda e io ci lavoravo anche quando ero già un giocatore professionista. L’ ho ceduta nel 1980″. Allora, Mino Favini, 78 anni, da poco vedovo (ha perso in ottobre l’amata signora Annapaola) due figli, Stefano (fisioterapista delle squadre nazionali) e Giorgio 31 anni (impiegato) e, soprattutto, una nipotina Francesca (“Due anni a novembre, ci ha riempito la casa”), ha cominciato a costruire la sua fama di migliore talent-scout d’Italia, di creatore di campioni.
Prima responsabile del settore giovanile del Como, poi, dal ’90, di quello della società più autarchica che ci sia, l’Atalanta, rivelazione di questo inizio campionato: sette punti, due vittorie in trasferta, 13 italiani, sostituzioni comprese, in campo a Bari. Il suo regno è Zingonia, il suo raggio d’azione è il profondo Nord. Il mattino è in sede, il pomeriggio al centro sportivo. La domenica, quando gli altri dormono, Favini batte i campetti dove i genitori stanno aggrappati alla rete a urlare di tutto ai figli, agli avversari dei figli e, naturalmente, all’ arbitro.
“Poi, se ci riesco, vado allo stadio, ma chi fa questo lavoro deve essere pronto al sacrificio: poca Serie A e molte periferie”. Favini è un uomo al comando, ma non è solo, un centinaio di persone lavorano per il settore giovanile dell’Atalanta. Qualche numero del vivaio: tre miliardi d’ investimento, 11 squadre, 218 giocatori, 101 dipendenti, 15 calciatori saliti in prima squadra (Colombo è stato ceduto all’ Inter), 50 le società collegate. Le migliori in Veneto e in Friuli (“Per quella zona c’è il signor Visentin: grazie a lui abbiamo preso Donati”), e in Toscana dove c’è Margine Coperta, paese-club dal nome bizzarro, in provincia di Pistoia. “Da laggiù sono arrivati il povero Chicco Pisani e Rossini”.
L’Atalanta prende i bambini a 10 anni, anche stranieri, come i fratelli Nassio, brasiliani, segnalati da Pedrinho. La prima selezione la fa il maestro Bonifaccio, che si chiama Raffaello, “ma noi lo chiamiamo maestro, perché lo è, in tutti i sensi: un vero insegnante elementare”. Favini invece è ragioniere. “Ringrazio i miei che mi hanno costretto a studiare”. Favini è nato e vive a Meda, da giocatore (13 anni di professionismo) si è avventurato fino a Reggio Emilia, da allenatore neanche a Milano.
“Ho avuto dei contatti con l’Inter, anni fa, poi più recentemente con il mio amico Lele Oriali, ma sono rimasto qui, ci sono attaccato e posso lavorare con la mia testa”. Dopo il sì del “maestro”, c’è Favini. “La scelta è essenzialmente attitudinale: capacità e naturalezza nel rapporto con la palla. Fino a 15 anni contano solo i fondamentali, su questo siamo maniacali. Il resto, tattica, fisico, verranno, c’è tempo, ma la predispozizione è nelle mani del Signore”. Anche l’ educazione. “Lavoriamo per costruire dei buoni giocatori, ma anche degli uomini, perché non tutti sfonderanno. E noi a Bergamo siamo privilegiati rispetto ad altre società, perché possiamo sistemare i nostri ragazzi alla Casa del Giovane, che è un paese all’ interno della città, dove possono studiare e crescere bene. Devo ringraziare, per questo, don Serafino Minelli e i suoi preti”.
La fortuna di vivere nella cattolica Bergamo. Favini non ha mai pensato di lasciare i ragazzi per i grandi. “Bisogna coltivare le proprie passioni, la mia è questa”. Nomi, dunque, a parte i giovani leoni dell’ Atalanta di oggi, i due Zenoni, Rossini, Donati: Matteoli (“Ci sentiamo ancora adesso, mi chiede consigli”), Vierchowod, Borgonovo, Fusi, Fontolan, Simone, Fortunato (“Bravissimo, divorava il campo e la vita, poi ho capito perché”), Tacchinardi, Zambrotta, De Ascentis.
Errori? “Eh, tantissimi. L’ultimo: Vannucchi, pensavamo di avere qualcosa di meglio in quel ruolo”. Il segreto di un buon settore giovanile? “La società che ci crede, una buona organizzazione, la capacità degli istruttori, convincersi che allenare gli esordienti è come allenare la prima squadra”. E avere un buon panettiere sotto casa!