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Calcio, lo speciale Settore Giovanile del ct Vaniglia. Donadoni, il “tappo” della Dea Bergamasca si racconta

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L’intervista che proponiamo è stata dedicata ad un grande del calcio italiano che non si è mai dimenticato della società a cui deve la sua fama e notorietà per averlo lanciato nel mondo professionistico e riteniamo che sia una delle più riuscite e significative specie per gli allenatori, esperti, appassionati e addetti ai lavori, cui stanno a cuore le sorti del calcio giovanile. Ne riportiamo i passaggi principali nella certezza che suscitino interesse e spunti di riflessione. Trarremo lo spunto proprio da questo protagonista di primo piano della ribalta calcistica nazionale oltre che per completare momentaneamente il ricchissimo dossier presentato sul format Atalanta, per introdurre l’interessante argomento che riguarda il rapporto tra i giocatori di bassa statura e lo sport forse più democratico del mondo.

Roberto Donadoni (ex centrocampista di fascia destra classe 1963) in un pomeriggio qualunque, della nebbiosa Parma (società attualmente ultima in classifica in campionato ed in un mare di problemi finanziari), non ha tanto l’aspetto del mister distinto che siamo abituati a vedere sulle panchine della Serie A e che abbiamo apprezzato da CT della Nazionale. Ma dell’artista, semmai. Barba di sette giorni, capelli lunghetti con ciocche bianche (“tingersi sarebbe ridicolo”), maglione largo, jeans. Non vogliamo chiedergli della situazione dei ducali, per cercare di metterlo più a suo agio. E di questo ci ringrazia. Del resto oltre a saperne qualcosa di più sul “personaggio” è di settore giovanile che vogliamo parlare con lui.

Dal Milan in qua, di lei si sa molto. Del periodo precedente, poco. Si sa che lei è stato il primo acquisto (10 miliardi di lire nel 1986) per cui Berlusconi s’è mosso di persona.
“Così dice lui. Non discuto. Io so di averci messo molto di mio, per andare al Milan. Bortolotti, presidente dell’Atalanta, aveva già deciso di cedermi alla Juve. Ma io, milanista fin da bambino, volevo il Milan e tanto ho insistito col ds Previtali che ci sono andato”.

Che tipo di bambino era?
“Ultimo di quattro. Forse non programmato, ma questo l’ho capito dopo. Ci sono tre anni d’intervallo tra Giorgio e Maria Rosa e tre fra Maria Rosa e Gigliola. Solo uno tra Gigliola e me. Il mio paese, Cisano Bergamasco, è a 16 km da Lecco e 18 da Bergamo, nella Bassa. Cinquemila abitanti, qualche azienda importante come la cartografica Pozzoni. Mio padre è il primo di undici figli, mia madre Giacomina ha cinque sorelle. Le cascine dei miei distavano 500 metri. In mezzo, campi di granturco e qualche vigna. Ricordo l’eccitazione prima della vendemmia e l’orgoglio di fare il chierichetto. Ero milanista perché mi piaceva Gianni Rivera. A 12 anni ho potuto infilare le prime Adidas Rivera della mia vita, nere con strisce rosse. Mi piaceva Rivera ma anche Cruyff, Beckenbauer, insomma i giocatori eleganti. Anche se capivo l’importanza di quelli grandi e grossi, sapevo di essere dall’altra parte”.

Un tappo?
“Faccia lei: a 14 anni ero 1.45 e i compagni di gioco mi avavano ribatezzato :”ragno”. Tant’è che l’Atalanta voleva cedere il mio cartellino al Ponte San Pietro. E mio fratello disse: piuttosto mio fratello lo compro io. Col pallone Giorgio era forse più bravo di me, ma ne aveva sempre una. Un dolorino, una botta, un graffio. Così mio padre gli disse: invece di lamentarti ogni sera è meglio che studi da ragioniere e ti piazzi in banca. E in banca c’è ancora adesso. Però s’è sfogato a scrivermi le pagelle in stile giornalistico, e non era per niente tenero. Quando sono arrivato al Milan, ha smesso di scriverle”.

Si ritiene un predestinato?
“A 9 anni avevo già la maglia della Cisanese. In quinta elementare, la mia classe giocava contro i ragazzi di terza media e qualche volta li batteva. All’oratorio, mi era proibito passare la metà campo, oppure potevo passarla ma non segnare. Così dribblavo tutti quelli che potevo e al momento di fare gol passavo a qualcuno. A differenza di Giorgio, non mi sono mai lamentato delle botte che prendevo. Credo sia stato fondamentale l’esempio di mio padre Ercole, ma tutti l’hanno sempre chiamato Piero. Ha fatto il contadino fino a 20 anni, poi s’è messo a trasportare materiali ferrosi. Dopo un po’ aveva due camion e un operaio. Si alzava alle 4 e tornava che era buio, tutto il lavoro si faceva a mano, col badile. Ecco, con tutti gli allenamenti e le partite che ho fatto, so che non potrò arrivare che al 10% della fatica che ha fatto mio padre. Sarà anche per questo che per me il calcio è una bellissima cosa ma non riempie la vita”.

In che senso?
“Faccio fatica a ricordare quanti scudetti ho vinto. Non so dire qual è il mio gol più bello perché non me ne viene in mente uno. Non ricordo i nomi di tutti quelli con cui ho giocato, né quelli degli arbitri che mi hanno diretto. Al Milan ho vinto molto e ogni volta azzeravo tutto, pensavo alla prossima. Non mi piacevano i riflettori allora, non mi piacciono adesso, ma nel mio ruolo ho degli obblighi e sono quasi diventato un chiacchierone”.

Si sforzi di ricordare qualcosa.
“Nel bene, il 5-0 al Real. Nel male, il rigore che ho sbagliato con l’Argentina a Napoli. Quella Nazionale meritava la finale”.

Quanto ha influito Sacchi sulla sua carriera?
“Molto. Ma il maestro, così lo chiamavo da ragazzino e così lo chiamo ancora, resta Raffaello Bonifaccio, quello che mi portò all’Atalanta. Cisanese-Telgate, lui era venuto per vedere uno del Telgate, Marchetti, e prese me. E del calcio mi ha insegnato la tecnica, la tattica (avevo il compito di saltare come birilli ogni persona o cosa che mi si parasse davanti), il rispetto per i compagni e gli avversari, la cultura del lavoro, la stessa che predicava Sacchi, ma io avevo già imparato la lezione. Ricordo la sua 500 bianca, ci stavamo non so come in 5 coi borsoni da calcio. A Bergamo ci allenavamo al campo militare, alla fine giravamo con carriola e badile per tappare i buchi, poi saltavo sull’autobus numero 9 fino alla stazione e di nuovo saltavo sull’accelerato delle 18.05 che impiegava 40 minuti a fare 18 km. E cominciavo a studiare. Se perdevo il 18.05 dovevo aspettare quello delle 21″.

Mai ostacolato, in famiglia?
“Mio padre ogni tanto veniva a vedermi, ma senza fare un commento. Né allora né dopo. L’unica minaccia, esagerata, me la fece quando venne a sapere, non so da chi, che avevo dato un pugno sulla spalla a una compagna di scuola”.

Il motivo?
“Alla mia collezione di figurine mancava quella del portiere juventino Massimo Piloni. Lei ce l’aveva e per puro dispetto non voleva darmela. Un’altra lamentela dalla scuola, disse tranquillo mio padre, e ti inchiodo le orecchie sul banco. Non ci furono altre lamentele. Ho anche preso il diploma da geometra, ultimi due anni da privatista. Dei cugini di mio padre avevano una piccola impresa edile. Ho lavorato anche lì, passando da muratorino a gruista”.

Si parlava di Sacchi.
“Uno choc enorme, inizialmente. E sì che di allenatori-martelli ne avevo avuti. Casati, che ci faceva bere bicchieroni d’acqua con dentro il sale grosso da cucina, per reintegrare. Ottavio Bianchi, che mi fece esordire in serie B nel 1982/83. Sonetti, il mio incubo. Per mesi ho sognato di strangolarlo. “O faccio di te un calciatore o ti faccio smettere”, ripeteva il suo faccione, e io ogni notte lo strangolavo. A quei tempi ero convinto di essere il più bravo di tutti, mi sentivo un professorino. Però aveva ragione Sonetti: il calcio è sacrificio, se non lo capisci non vai da nessuna parte. Con Sacchi è stato lo stravolgimento di tutto. Prima, con Liedholm, ci si allenava blandamente. La fatica fatta con Sacchi non si può raccontare. Ma era il segreto di quel Milan, un gruppo che accettava i massimi pesi del lavoro fisico e tattico. Era una sfida continua: a noi stessi, prima che agli altri. A Milanello eravamo tutti amici, eppure fuori ci frequentavamo pochissimo. Ma com’era bello, in allenamento, puntare Maldini o Baresi. Sapevo che, se riuscivo a saltare loro il giovedì, la domenica avrei superato ossi meno duri. Osso era anche il mio soprannome, a Milanello, perché non mollavo mai”.

La sua allergia al 4-4-2 è nata ai tempi di Sacchi?
“Non è un’allergia, è il rifiuto di considerare schemi troppo rigidi. Con Sacchi, non è che inizialmente le cose andassero benone. Non perché gli giocassimo contro, ma perché si faceva proprio fatica a stargli dietro”.

Lei ha un figlio di 26 anni. Cosa direbbe a lui e a quelli della sua età?
“Andrea studia giurisprudenza e fa l’istruttore di calcio all’Aldini. Di giocare gli è passata la voglia. A tutti direi: non cercate di assomigliarvi, di avere gli stessi vestiti, le stesse idee. Andate fuori dalle righe”.

C’è qualcosa che le dà particolarmente fastidio?
“Che qualcuno si ostini a considerarmi un raccomandato. Mai chiesto nulla a nessuno, e nessuno mi ha mai regalato nulla”.

Lei è nato il 9 settembre, come Cesare Pavese, il comandante Massud, l’ex presidente Scalfaro, Lucio Battisti, Hugh Grant e Michael Bublé. Sente vicinanze con qualcuno?
“Bublé è gradevole da ascoltare. Ma dipende dagli stati d’animo: vanno bene anche De André e Guccini. Da giovane impazzivo per il country: Kenny Rogers, Neil Young. Con gli anni i gusti cambiano”.

Da meno giovane, che scoperte ha fatto?
“Le emozioni. Da giocatore, evidentemente, non ho saputo viverle. Il gol di un azzurro mi emoziona molto più adesso che sto in panchina di quando il gol lo segnavo io. E’ grave?”.


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