Savona. Dai leggendari anni ’70 (quelli del calcio “totale” olandese) ad oggi è inevitabile ed innegabile che molte cose siano cambiate. Ma dopo l’ennesimo flop della Nazionale ai Mondiali, dopo le critiche al sistema dei vivai di Arrigo Sacchi e dopo le accuse rivolte agli istruttori dei giovani calciatori da Fabio Capello, pare obbligatorio porsi queste domande. Come recuperare gli esercizi perduti nel tempo che facevano crescere i piccoli talenti? Che fine hanno fatto i maestri di tecnica di una volta?
Continua la nostra inchiesta/dossier sull’involuzione dell’insegnamento della tecnica nell’attività di base e di conseguenza dell’intero movimento calcistico nazionale.
Questa volta per intervenire sul tema è il turno del giornalista sportivo Nicola Cavalieri, il direttore editoriale della Gazzetta Regionale (Notizie, Sport e Passione) edizione Lazio, un trisettimanale free press on line (nonchè bisettimanale cartaceo) che si occupa, con il contributo professionale di un esperto come Italo Cucci, di calcio giovanile.
Ci tuffiamo nell’argomento che ci sta a cuore direttamente attraverso le sue parole. “Il mio maestro di calcio si chiamava Silvano Magheri (nella foto), un vero mito che ci ha lasciati da poco, il primo ottobre, nella Ravenna che lo aveva accolto sempre con tanto affetto. Il mio omaggio va a lui, uno sconosciuto per molti, ma non per i più esperti conoscitori di questo sport meraviglioso, che è il calcio. Magheri è stato uno dei bomber più prolifici della storia della Serie C con 145 reti all’attivo, l’unico ad aver vinto per tre volte la classifica marcatori con la stessa maglia, quella della gloriosa Biellese. Nato nel 1933 a Firenze, atleta di una certa stazza, in gioventù militò nel Rifredi di Firenze e nel Giulianova. Dopo la vittoria del campionato di IV Serie 1956-1957 ottenuta nelle file della Sarom Ravenna, giocò per dieci stagioni consecutive in Serie C; con 145 reti, ad oggi risulta essere il quinto cannoniere di sempre in questa categoria. Vinse tre classifiche dei cannonieri (1961, 1962 e 1966) e arrivò secondo in tre occasioni, staccato di una rete da Giuseppe Orlando nel 1958 e da Albino Cella nel 1965, e di due reti da Agide Lenzi nel 1960. A livello di club non riuscì a vincere alcun campionato di terza serie, ottenendo unicamente piazzamenti, in particolare quattro secondi posti nel 1961, 1962 e nel 1965 con la Biellese e nel 1964 con il Forlì e un terzo posto nel 1960, con il Trapani. Giocò in Serie B nella prima parte del campionato 1962-63, con la Sanbenedettese. Nel 1967-1968 giocò in Serie D con l’Ivrea; dopo il ritiro dai campi di gioco diresse una scuola calcio nel Ravennate .Oltre ad essere stato un autentico goleador è stato uno dei più grandi allenatori che il calcio giovanile italiano, a mio parere, abbia avuto. Ne persi le tracce quando nel 1998 io e la mia famiglia ci trasferimmo nella Capitale: lo lasciai indaffarato nella formazione calcistica del nipote Antonio. Lo ritrovai un paio di anni più tardi a Trigoria, ospite della Roma, quando il lavoro di qualità svolto aveva portato i suoi frutti. Antonio toccava il pallone in maniera sublime, eppure non sembrava che madre natura gli avesse offerto in dote chissà quale talento. Magheri mi lasciò una videocassetta quel giorno, la stessa che si preoccupava di spedire ad ogni società professionistica del paese per far ammirare le qualità del giocatore che aveva creato. E le società immancabilmente lo chiamavano per fissargli il provino. Era tutto merito suo, e ne era consapevole. Girovagava per l’Italia con la fierezza e la sicurezza di chi sa di avere in mano il meglio che si possa offrire. Quello stesso giorno guardai la cassetta con mio fratello e rimanemmo sconvolti, Antonio era un fenomeno. Ma noi sapevamo il perché, essendo stati per nostra fortuna allievi di Magheri a suo tempo”.
“Ho ripensato fortemente a mister Magheri in questi giorni – prosegue Cavalieri -, soprattutto in considerazione delle sue capacità di allenatore messe a confronto con quelle di alcuni tecnici che insegnano nelle scuole calcio del bacino laziale. E parliamo comunque del top negli ultimi anni in Italia. Sono caduto nello sconforto, pensando ai tanti giovani giocatori che muovono i primi passi e purtroppo non avranno mai la fortuna di essere allievi di un vero maestro di calcio. Il problema ruota fortemente attorno a quello che oggi è il ruolo prioritario che ricopre l’attività di base nelle economie di una società. I piccoli iscritti, togliendo ogni velo di ipocrisia, rappresentano principalmente un introito. Ma non è questo il problema; non si può certo chiedere a un club di non generare profitti utili a garantirsi la sopravvivenza. Il vero problema, è che ci sono società (questo è il ‘sistema’ in auge) pronte a prendersi quei soldi senza volere o potere offrire in cambio ai giovani un adeguato servizio di insegnamento della disciplina sportiva in questione. E’ spiacevolmente semplice infatti trovare tecnici con lacune evidenti, che inevitabilmente perdono credibilità in primis agli occhi dei genitori e in alcuni casi dei calciatori stessi, che a quel punto presumono di saperne di più”.
“Non basta un corso per essere allenatore. Oltre ad un costante studio della disciplina e una dedizione smisurata, credo ancora, forse con un velo di romanticismo, che per essere un maestro di calcio ( penso che non ce ne siano quasi più in giro) come quelli di una volta) sia necessaria una predisposizione di natura caratteriale. Perché il maestro di calcio è come quello di scuola, ha delle responsabilità in quanto guida di un gruppo. Deve dettare le regole ed essere in grado di farle rispettare, non essere un fomentatore da spogliatoio stile ‘contro tutto e tutti’, stucchevole frase troppe volte sentita; tenendo sempre presente che la priorità è la formazione del giovane in ogni suo aspetto”.
“Forca, muro e triangolo erano gli attrezzi del mestiere più gettonati a cui si faceva ricorso. I miei allenamenti erano molto diversi da quelli ai quali ho assistito in questi anni. Oggi mancano alcuni strumenti chiave della mia formazione: in primis la forca e il muro. La forca, per intenderci, è una sorta di T gigante realizzata in ferro, alta più o meno tre metri. Dalle due estremità del lato orizzontale pendono due cordoncini ai quali sono appesi i palloni, che restano sospesi per aria. Ovviamente la lunghezza della corda varia a seconda dell’altezza della persona che ne fa uso e dell’allenamento che si vuole praticare. Il muro non serve spiegarlo. Entrambi gli esercizi servono per affinare la tecnica del calcio, dello stop e della coordinazione, i fondamentali per eccellenza di questo sport. Dopo tanta pratica, dovevi ottenere i due risultati: quando calciavi, il muro doveva riconsegnarti precisamente la palla sui piedi disegnando una traiettoria lineare sul terreno. Nella forca invece, dopo il tuo colpo il pallone doveva pendere avanti e indietro restando sempre sullo stesso asse con la corda perfettamente tesa. Indimenticabile poi il triangolo in legno quando ci si allenava per i tiri in porta. Un classico: tutti in fila indiana a centrocampo, si parte con la percussione palla al piede poi ai venti metri si fa l’uno-due con l’allenatore o il compagno di turno e si va al tiro. Prima al posto di quella persona c’era un triangolo equilatero con i lati da un paio di metri circa, sul quale tu dovevi far sbattere la palla per chiudere la triangolazione. Capite molto bene che era fondamentale colpire nel punto esatto la superficie del triangolo, altrimenti la palla prendeva una direzione sbagliata e non ti consentiva di andare al tiro. Tutti gli esercizi, e dico tutti, avevano come fine la crescita tecnica del calciatore”.
“Palleggio, tocco, acrobazia: questo garantivano di migliorare gli strumenti citati che ahimè non ho visto più intorno ai campi. Inoltre usavamo in continuazione la corda per migliorare la coordinazione. Perdevamo ore a saltare in maniera differente: a gambe alternate, a gambe unite, due volte con una gamba due volte con l’altra, e via dicendo. A volte usavamo anche gli hula hop. Si insisteva sull’equilibrio e sul perfezionamento della postura del corpo in corsa. La pratica con il pallone tra i piedi era abbastanza diversa da oggi. Quando si palleggiava dovevi prima essere in grado di calciare la sfera in maniera corretta, e non essere quindi solo un bambino che calcia il pallone due volte al volo, tutto sbilanciato all’indietro, e alla terza gli finisce a trenta metri di distanza. Quindi per acquisire la giusta tecnica nel tocco, si lasciava rimbalzare la palla per terra tra un palleggio e l’altro, nel mentre ti coordinavi sul posto restando ‘in movimento’. Altra cosa che ricordo con nostalgia è lo stop con la pianta del piede. Con Magheri non potevi controllare la sfera in nessun altro modo se prima non eri in grado di farlo con la pianta del piede, e con la giusta posizione del corpo. Stesso discorso ovviamente per il piede di appoggio, in corsa e da fermo: potevi scordarti tiri in porta e partitelle se il piede d’appoggio non era nella posizione perfetta. Per non parlare poi della cura delle finte di corpo e non, e dell’affinamento della tecnica acrobatica. C’era tutto. Così mi chiedo:
dov’è finito quel calcio? Dove sono i maestri di una volta?”.
“Da fine anni ’90 a oggi non ci si è sforzati di proporre niente di nuovo, non ci si è dedicati più a studiare questo gioco per essere i migliori. Gli interessi economici hanno prevalso palesemente affossando la crescita. Abbiamo di fatto assistito ad una vera e propria speculazione involutiva. Quante volte si vede un esercizio eseguito malissimo senza che il calciatore venga ripreso? Tante. Oggi, in tempi di crisi, paghiamo in termini di qualità la necessità dei club di fare cassa con gli iscritti, perché soldi ne girano pochi, e la conseguente scarsa preparazione di alcuni tecnici dell’attività di base. Varie società cercano di ottimizzare i guadagni affidando al giovane volontario di turno un ruolo importante come quello del maestro di Scuola Calcio. Ma in alcuni casi… Penso che si tratti di una ‘questione di filosofia’. Magheri era già un signore di oltre cinquanta anni quando allenava me e mio fratello. Ma non sarebbe il problema principale l’età, anche perché ci sono giovani che meritano, nonostante i più bravi maestri che abbia conosciuto di esperienza ne avevano già tanta. E’ che porto dentro la convinzione che in molti casi la scelta sia più ‘modaiola’ e conveniente che altro. Detto delle necessità economiche dei club, credo che in Italia siamo riusciti a cogliere il peggio dall’esempio di Guardiola, facendo nostro soprattutto l’elemento ‘scommessa sul giovane’. Guardiola in realtà, oltre ad essere stato un tecnico giovane e vincente, è una delle migliori espressioni di una filosofia calcistica sulla quale l’intera Spagna, e soprattutto il Barcellona (la Cantera, la Masia), ha lavorato e investito per anni, e con la quale ha raggiunto la vetta del mondo dopo decenni di anonimato. Guardiola da solo, probabilmente, non sarebbe riuscito a creare un movimento di tale portata. Ora questa sfrenata ricerca dell’ex calciatore che diventa subito allenatore è una realtà anche nella scuola calcio dilettantistica. Da non crederci! Ma come ha spiegato bene Fabio Capello nella sua intervista alla Gazzetta Regionale: quelli bravi costano, se non li paghi adeguatamente cercano altre strade”.
“Ci ostiniamo a voler seguire dei modelli esistenti in altre realtà europee per uscire da questo momento nero, senza volerne cogliere i veri valori necessari: investimento, lavoro e pazienza. Ora si parla quasi con stucchevole insistenza del modello tedesco, poco prima sulla bocca di tutti c’era per l’appunto la catalunya blaugrana. La prima volta che ho visto il video degli allenamenti delle giovanili del Barcellona ho pensato proprio a Magheri per quanto erano simili ai suoi. Né i tedeschi né i catalani hanno creato una nuova branca della scienza calcistica, semplicemente hanno investito in modo oculato restringendo l’area della speculazione personale, con l’ambizione di essere i migliori e armati della pazienza necessaria per poter attendere lo splendido raccolto. Continuo ad essere fortemente convinto che l’Italia abbia i mezzi e le capacità per superare questa crisi. Continuo ad avere la presunzione che in Europa nessuno conosca il calcio meglio di noi. Perché è la nostra quotidianità, è lo sport che tutti conosciamo alla perfezione e in cui tutti possiamo esprimere la nostra opinione, e perché no, avere ragione. Si dice spesso che ‘l’Italia è un paese con sessanta milioni di allenatori’. Credo ci sia un fondo di realtà, si tratta solo di capire bene quali siano quelli indicati a vestire i panni di maestro di calcio”.